domenica 3 maggio 2009

Che L'argentino (2008, Sodenbergh)


Che L’argentino è la prima parte del lungometraggio sulla storia di Ernesto Guevara che in Europa è stata divisa in due parti (per la mole totale di più di quattro ore). Nel 1956 Fidel Castro parte per Cuba con al seguito 80 ribelli, pronti a rovesciare la dittatura di Fulgencio Batista. Tra questi ribelli emerge la personalità e la forza di Ernesto Guevara, laureato in medicina e che condivide le stesse ideologie di Fidel. La prima parte di Che L'argentino racconta il viaggio all’interno della giungla cubana verso Havana e la conseguente liberazione di Santa Clara. L' avanzata del Che tra il 1956 e il 1958 in Cuba viene narrata con un espediente stilistico basato sul genere del documentario di guerra. Con immagini nitide e una rappresentazione dell’ideologia dietro la rivoluzione che sembra quasi fuoriuscire dallo schermo, Che L'argentino è la storia di un uomo che diverrà icona e simbolo di un’epoca e dei decenni a venire.
Il film è costruito su due piani narrativi. Tutto il film è composto da flashback che emergono (in un'unica linearità diegetica) da un intervista rilasciata a New York durante la sua partecipazione alle Nazioni Unite. Questi blocchi di flashback vengono intervallati da scene situate nel “presente” 1964, dove nel Palazzo di vetro presenziava uno dei discorsi che rimarrà nella storia, e dove deve fare i conti con i “pericolosi” giornalisti e mass media. Questi due livelli di narrazione vengono messi in risalto da una scelta estetica interessante: le scene del 1964 sono raccontate in bianco e nero, come a voler mostrare non solo l’avvicinarsi della sua grigia fine (Ernesto “Che” Guevara viene ucciso nel 1967 a La Higuera), ma anche il fatto di trovarsi nel “bianco e nero” capitalista degli Stati Uniti. Con questo contrasto tra il 1964 in bianco e nero e il 1956/58 a colori è anche un esemplare concretizzazione visiva dei due volti (per niente contrastanti ma divisi dalle necessità del campo su cui si trova a “lottare”) con cui è stata dipinta la figura di Ernesto “Che” Guevata: il volto del guerrigliero rivoluzionario (temibile leader e sensibile compagno, abile stratega con un imbarazzante problema asmatico, e fedele amico di Fidel Castro) e il volto del politico (eccezionale oratore e calmo diplomatico, sicuro nelle sue esposizioni e abile nel contrattaccare le parti avversarie, e che non demorde davanti ai flash delle macchine fotografiche dei giornalisti).
La scelta di voler dare un impianto estetico come un documentario di guerra implica di conseguenza una tipo di ripresa particolare, ossia il piano sequenza (una sequenza viene ripresa senza stacchi di montaggio, subordinando la macchina da presa all’immagine). L’intero film, soprattutto flashback del viaggio verso la capitare Cubana, è costruito su numerosissimi piani sequenza statici, privi di movimenti bruschi ma al contrario bloccati in un'unica immagine, come se la macchina da presa fosse lasciata in un angolo del terreno a riprendere. E’ un ottimo modo per esprimere le sensazioni e l’atmosfere che si respiravano in quel contesto così alienante, ma al tempo stesso questo tipo di artificio stilistico non consente allo spettatore di avere una libertà di movimento nell’immagine, ed è così obbligato a dover fissare a lungo una stessa sequenza solo da un unico punto di ripresa. Durante il procedere del film la staticità della giungla viene sostituita da una dinamicità della città di Santa Clara, dove finalmente la macchina da presa sembra respirare e può muoversi, seppur sempre con timidezza.
Soderbergh non romanza assolutamente la storia del guerrigliero argentino ma la acuisce con uno stampo fortemente realistico (i titoli di coda sono un frammento della realtà documentata, con l’uso di immagini di repertorio), lontano dall’immagine del “Che” nei film di Walter Salles I diari della motocicletta. La storia non viene intermediata da immagini leggere e troppo fittizie, ma tutto viene caricato dall’enorme peso della Storia e del Simbolo che Ernesto “Che” Guevara rappresentava. Eppure si riesce a percepire l’ottimismo che portava con sé Ernesto Che Guevara, e questa sensazione di speranza e di cambiamento colora ulteriormente l’intero film.
Benicio Del Toro interpreta a fondo il ruolo di un’icona difficile da rappresentare senza scadere nell’eroicizzare. Anche se il suo carisma non viene del tutto tracciato nitidamente, forse perché il film viene stroncato poco dopo la liberazione di Santa Clara. Quindi bisogna attendere la seconda parte Che Guerriglia per poter assaporare al meglio il film nella sua totalità, per poter vedere a 360° il viaggio di Ernesto Che Guevara che non è costituita solo dalla sua ascesa, ma anche dalla sua caduta.
Finalmente con Soderbergh si ritrova in un film il puro atto di raccontare la Storia, esibendo pregi e difetti che emergono durante una “lezione” del genere.

Fortapàsc (2008, Marco Risi)


il 23 Settembre del 1985 Giancarlo Siani viene trovato ucciso sotto casa nella sua Mehari verde.
Tra la Napoli, sede del quotidiano “Il Mattino”, e la Torre Annunziata (chiamata Fortapàsc), dove il Boss Valentino Gionta e il Clan Nuvoletta sono in guerra armata, Giancarlo Siani cerca di farsi strada come giornalista (abusivo) indagando su legami della malavita con le istituzioni politiche locali dopo i fatti del terremoto che hanno portato a una serie di appalti intorno alle quali girava un traffico di denari “sporco”.
Un articolo di troppo sull’arresto di Valentino Gionta che metteva in bilico il rapporto tra due clan in lotta però lo porta inevitabilmente nel loro mirino. Un mirino che non lascia la vittima e che inevitabilmente fa fuoco.
Giancarlo Siani quand’è morto aveva appena compiuto 26 anni. Umile, serio, con lo sguardo che si protendeva verso il futuro.
E’ difficile poter scrivere qualcosa riguardo a film di questo genere, dove coraggiosamente viene evidenziata e ricordata la lama invisibile che taglia e ferisce il nostro paese, che tuttavia continua a rimanere inerte davanti a questa inconfutabile realtà.
Parlare di Camorra con il linguaggio cinematografico è complicato, perché si può finire col “romanzare” troppo storie di uomini e donne comuni che si semplicemente conducevano la loro vita e che sono finiti nel mirino della Camorra poiché sostenevano la giustizia e la verità con una penna, una macchina da scrivere, una macchina fotografica, o semplicemente con uno sguardo e una parola.
Il film Fortapàsc si fa carico di un tema delicato mostrando non solo la presenza della malavita organizzata e la sua morsa intorno al collo della società, ma la sua corruzione radicata nelle istituzioni politiche (o forse le istituzioni politiche radicate nella malavita). Oltre a questo la figura di Giancarlo Siani riflette a fondo sul ruolo del “giornalista-giornalista”, colui che adempie al suo mestiere con forza e dedizione, volendo mettere a disposizione di tutti una verità che da molti viene negata, da pochi viene compresa, e da nessuno viene combattuta . Tranne che da eroi come Giancarlo, che di eroe non aveva altro che volontà d’animo di proseguire le sue indagini. Persone come Giancarlo sono uguali a tutti noi che diventano eroi per scelta e per necessità, ma diventano vittime della loro stessa tenacia e coraggio.
Anche stavolta il Cinema Italiano si addossa il ruolo di testimone, documento,racconto e commemorazione delle vittime della Camorra. E’ un compito amaro, che soprattutto il cinema se ne fa carico.
Dopo il gran successo del film “Gomorra” (2008), trasposizione sul grande schermo del coraggioso successo di Roberto Saviani, il regista Matteo Garrone passa un testimone simbolico a Marco Risi, il quale non fa altro che raccontare Giancarlo Siani nella maniera più realistica possibile, tracciando la sua personalità, umanità, ed nobiltà d’animo, la sua lotta e impegno politico, il suo affetto come amico e il suo amore come fidanzato. Le sue intenzioni non sono quelle di santificarlo, poiché ciò che Giancarlo faceva era solamente perseguire il suo futuro, vivere la sua vita.
E’ interpretato da un impeccabile Libero De Rienzo, che riveste perfettamente la parte. Una parte che viene decorata con piccole caratteristiche tipiche della sua persona, come l’accecante Mehari verde con cui si muoveva tra Napoli e Torre Annunziata, oppure la macchina da scrivere dietro cui era scritto “Giancarlo! Se la tocchi la sposi!”.
Non c’è retorica, solo una attenzione a una autenticità e a una ricostruzione dei fatti storici e quelli personali del protagonista, e dell’epoca e di quella società (la collettività napoletana davanti alle partite di calcio di Maradona, le baraccopoli degradanti lungo le coste, le canzoni di Battiato e Vasco Rossi). Ricostruzione dettagliata è anche della scenografia: infatti buona parte del film è girato nelle location reali dove si sono svolti i fatti.
Magistrali due scene quasi surreali dove simbolicamente viene rappresentata la totale solitudine di Giancarlo: ad esempio la scena dello schiaffo nel Bar, oppure quella nei parcheggi sotterranei. In queste due sequenze di mette in scena un lavoro artistico e tecnico che colpisce lo spettatore come un pugno in faccia svegliandolo da un torpore che il film inconsapevolmente crea nella sala.
Altre sequenze di incaricano di svegliare la coscienza e la consapevolezza della violenza, e del sangue che la Camorra versa costantemente, ed esemplare e cruenta è la sequenza della strage di Sant’Alessandro, dove la ferocia della malavita si esprime in uno scontro quasi western tra le strade assolate e silenziose di Torre Annunziata.
Giancarlo sembra di conoscerlo da sempre, e durante il film speriamo che il suo destino possa cambiare da un momento all’altro, ma l’immagine finale parla da sé
I titoli di coda commemorano il vero Giancarlo Siani con l’immagine di lui in un corteo a Roma, dove sorridente esprime la sua gioia di vivere.
il 23 Settembre del 1985 Giancarlo Siani viene trovato ucciso sotto casa nella sua Mehari verde.
Tra la Napoli, sede del quotidiano “Il Mattino”, e la Torre Annunziata (chiamata Fortapàsc), dove il Boss Valentino Gionta e il Clan Nuvoletta sono in guerra armata, Giancarlo Siani cerca di farsi strada come giornalista (abusivo) indagando su legami della malavita con le istituzioni politiche locali dopo i fatti del terremoto che hanno portato a una serie di appalti intorno alle quali girava un traffico di denari “sporco”.
Un articolo di troppo sull’arresto di Valentino Gionta che metteva in bilico il rapporto tra due clan in lotta però lo porta inevitabilmente nel loro mirino. Un mirino che non lascia la vittima e che inevitabilmente fa fuoco.
Giancarlo Siani quand’è morto aveva appena compiuto 26 anni. Umile, serio, con lo sguardo che si protendeva verso il futuro.
E’ difficile poter scrivere qualcosa riguardo a film di questo genere, dove coraggiosamente viene evidenziata e ricordata la lama invisibile che taglia e ferisce il nostro paese, che tuttavia continua a rimanere inerte davanti a questa inconfutabile realtà.
Parlare di Camorra con il linguaggio cinematografico è complicato, perché si può finire col “romanzare” troppo storie di uomini e donne comuni che si semplicemente conducevano la loro vita e che sono finiti nel mirino della Camorra poiché sostenevano la giustizia e la verità con una penna, una macchina da scrivere, una macchina fotografica, o semplicemente con uno sguardo e una parola.
Il film Fortapàsc si fa carico di un tema delicato mostrando non solo la presenza della malavita organizzata e la sua morsa intorno al collo della società, ma la sua corruzione radicata nelle istituzioni politiche (o forse le istituzioni politiche radicate nella malavita). Oltre a questo la figura di Giancarlo Siani riflette a fondo sul ruolo del “giornalista-giornalista”, colui che adempie al suo mestiere con forza e dedizione, volendo mettere a disposizione di tutti una verità che da molti viene negata, da pochi viene compresa, e da nessuno viene combattuta . Tranne che da eroi come Giancarlo, che di eroe non aveva altro che volontà d’animo di proseguire le sue indagini. Persone come Giancarlo sono uguali a tutti noi che diventano eroi per scelta e per necessità, ma diventano vittime della loro stessa tenacia e coraggio.
Anche stavolta il Cinema Italiano si addossa il ruolo di testimone, documento,racconto e commemorazione delle vittime della Camorra. E’ un compito amaro, che soprattutto il cinema se ne fa carico.
Dopo il gran successo del film “Gomorra” (2008), trasposizione sul grande schermo del coraggioso successo di Roberto Saviani, il regista Matteo Garrone passa un testimone simbolico a Marco Risi, il quale non fa altro che raccontare Giancarlo Siani nella maniera più realistica possibile, tracciando la sua personalità, umanità, ed nobiltà d’animo, la sua lotta e impegno politico, il suo affetto come amico e il suo amore come fidanzato. Le sue intenzioni non sono quelle di santificarlo, poiché ciò che Giancarlo faceva era solamente perseguire il suo futuro, vivere la sua vita.
E’ interpretato da un impeccabile Libero De Rienzo, che riveste perfettamente la parte. Una parte che viene decorata con piccole caratteristiche tipiche della sua persona, come l’accecante Mehari verde con cui si muoveva tra Napoli e Torre Annunziata, oppure la macchina da scrivere dietro cui era scritto “Giancarlo! Se la tocchi la sposi!”.
Non c’è retorica, solo una attenzione a una autenticità e a una ricostruzione dei fatti storici e quelli personali del protagonista, e dell’epoca e di quella società (la collettività napoletana davanti alle partite di calcio di Maradona, le baraccopoli degradanti lungo le coste, le canzoni di Battiato e Vasco Rossi). Ricostruzione dettagliata è anche della scenografia: infatti buona parte del film è girato nelle location reali dove si sono svolti i fatti.
Magistrali due scene quasi surreali dove simbolicamente viene rappresentata la totale solitudine di Giancarlo: ad esempio la scena dello schiaffo nel Bar, oppure quella nei parcheggi sotterranei. In queste due sequenze di mette in scena un lavoro artistico e tecnico che colpisce lo spettatore come un pugno in faccia svegliandolo da un torpore che il film inconsapevolmente crea nella sala.
Altre sequenze di incaricano di svegliare la coscienza e la consapevolezza della violenza, e del sangue che la Camorra versa costantemente, ed esemplare e cruenta è la sequenza della strage di Sant’Alessandro, dove la ferocia della malavita si esprime in uno scontro quasi western tra le strade assolate e silenziose di Torre Annunziata.
Giancarlo sembra di conoscerlo da sempre, e durante il film speriamo che il suo destino possa cambiare da un momento all’altro, ma l’immagine finale parla da sé
I titoli di coda commemorano il vero Giancarlo Siani con l’immagine di lui in un corteo a Roma, dove sorridente esprime la sua gioia di vivere.